Calendario CSP: 17 dicembre 2017


Nella casella 17 il CST ci propone un racconto breve, ambientato in una nuova location creata appositamente a Trelis. Non ci resta che augurarvi buona lettura!

Allo “Scarafaggio Danzante”

Mathilde cercò di ricordare quanti fratelli avesse lo sposo. La sposa aveva già finito di danzare con tre di loro e ora era alle prese con il quarto, un ragazzetto ben più piccolo di lei. Tuttavia, la giovane non sembrava contrariata: sul suo volto tondo si allargava un bel sorriso, le sue gote erano arrossate dalla danza e dal vino di Federico, i suoi capelli marroni volavano in aria. La ghirlanda che portava in testa, fatta di crisantemi, viole e acetoselle del re, aveva già perso ben più di un petalo ed era un po’ sbilenca. Non sembrava però curarsene molto mentre danzava con il nuovo genero al ritmo del liuto, dei flauti e degli zoccoli di legno che picchiavano forte sul pavimento.

Passando velocemente dietro al bancone, Mathilde annusò l’aria e lanciò un’occhiata al forno. Poi aprì il portello proteggendosi la mano con il grembiule, confermando quel che già sapeva: il pane non era ancora pronto. “Aggiungi della legna, Miklav!” Poi si mosse verso il calderone, senza controllare se suo figlio le stesse dando retta. Dopo aver immerso il mestolo e aver soffiato per bene, assaggiò un po’ di minestra. Quasi… “Miklav, un’altra carota!” Mentre afferrava il coltello e tornava al bancone, l’ortaggio era già sul tagliere. Dopo averla tagliata a pezzetti con dei rapidi colpi, afferrò il tagliere e con un rapido gesto ne gettò nel calderone il contenuto, che andò così a unirsi alle ostriche che galleggiavano sulla superficie piena di grasso. Presto avrebbe dovuta assaggiarla di nuovo.

“Mathilde, posso aiutarti?”
“Orelie, tesoro, ci sei anche tu!”, urlò Mathilde abbracciando la sua vecchia amica dietro al bancone.
“Ma certo, non mi sarei persa questo matrimonio per nulla al mondo!”
“Hai visto quanto è felice la sposa?”, disse facendo cenno alla ragazza che danzava nel mezzo della stanza con un ragazzino, segno che presto sarebbe giunta al termine la tradizione di danzare con ciascun fratello del novello sposo. “Nessuno però sa se sia grazie allo sposo, o perché finalmente sta lasciando la fattoria di Farmon.”
Orelie si mise a ridere e le diede una pacca sulla spalla. “Mathilde, sei senza Speranza. Allora, come posso aiutarti?”
“La zuppa è pronta”, sentenziò, come se l’avesse già assaggiata nuovamente. “Potresti gentilmente dare un’occhiata al pane per me? Dovrebbe essere quasi pronto. Miklav! Miklav, figliolo, dove sei?”
Suo figlio, con le mani impegnate da tre boccali vuoti, si fece strada verso di lei. “Mi han detto di portare altra birra”.
“Potrai farlo fra un attimo, ma prima devi darmi una mano con il calderone”, disse lei afferrandogli l’orecchio, “e la prossima volta che ti chiamo, devi arrivare subito”.
Miklav non sembrava molto felice, ma non osò opporsi e la aiutò a tirar via il pesante pentolone dal fuoco. Come sempre, quando le serate si facevano un po’ più impegnative, suo figlio appariva esausto. Adanos, concedimi qualche altro anno così da prepararlo a dovere!, pensò mentre spegneva il fuoco. “Cosa fai là impalato, Miklav? L’arrosto di lepre si sta bruciando”. Il ragazzo corse via, quasi l’avesse morso una mosca del sangue. Faceva del suo meglio, ma non era ancora pronto per prendere in mano la gestione dello Scarafaggio Danzante. La confusione, le cose da fare tutte insieme, erano troppo per lui. Se solo il suo Ebert fosse stato ancora vivo, avrebbe saputo come dare una svegliata al ragazzo!

Mathilde si pulì le mani con il grembiule e si guardò intorno. Miklav aveva fatto un bel lavoro con i fiori, doveva ammetterlo. Ripensò al proprio matrimonio. Era successo così tanti anni fa, perfino prima che Lukkor e i suoi predoni superassero le colline scatenando la grande guerra. Forse Miklav sarebbe stato uno dei primi uomini della Marca a non dover affrontare un’invasione da Sud. Per molti anni aveva sperato che, ora che il re aveva conquistato il deserto, tutto sarebbe cambiato. Miklav non era ben conscio di cosa volesse dire essere un uomo della Marca. Era cresciuto con il privilegio di non dover temere gli assalti degli uomini del Sud, i quali invidiavano le loro terre fertili. Mathilde non era però più così sicura che sarebbe sfuggito al suo destino, magari era già stato tutto deciso da Adanos e la loro vita non sarebbe mai cambiata.

Sembrava assai probabile. Guardandosi attorno, vide l’intera Marca radunata, com’era sempre stato quando c’era qualcosa da festeggiare, sebbene fosse solo il matrimonio fra un bracciante e una servetta. Nel frattempo, la sposa aveva fatto il suo dovere e gli ospiti avevano iniziato a rendere onore al nome del locale. All’ultima parte, almeno… non voleva certo paragonare nessuno degli avventori a uno scarafaggio! Tutti quanti, uomini e donne di ogni fattoria, danzavano in un grande cerchio, mentre altri battevano i piedi a tempo. Nessuno sembrava far caso al fatto che il pifferaio si fosse preso una pausa e avesse ora la faccia immersa nella schiuma di un boccale. Poco più in là, vide due pescatori del golfo fare i cascamorti con delle serve della fattoria di Josh, mentre il marito di Orelie, Derec, brindava con Federico assaporando il suo vino. C’era anche uno dei suoi giovani braccianti, una testa calda di nome Ben, litigare con uno straniero che alloggiava in quei giorni alla locanda, il quale era stato ovviamente invitato a partecipare ai festeggiamenti come chiunque altro.

“Mathilde, vedo che hai tolto il calderone del pesce dal fuoco!”, disse avvicinandosi Tulio, uno dei contadini di Farmon, insieme a uno degli uomini del marchese. Quest’ultimo indossava ancora la tunica verde, ma aveva lasciato altrove la propria arma. “Che dici, non sarebbe giusto dare a me la prima ciotola di zuppa? Dopotutto, sono stato io a pescarlo!”
Mathilde rise, afferrò una ciotola di legno dallo scaffale e gli versò della zuppa. Nel frattempo, il soldato continuò infervorato: “È così ti dico! Ieri, mentre facevo il mio turno di guardia in cantina, ho sentito di nuovo grattare contro il muro. Grattare!”
Tulio scoppiò a ridere e prese la ciotola. “Sono certo fossero solo alcuni ratti nascosti dietro al muro. Ehi,” gli si avvicinò con fare da cospiratore, “mi dicono che a Khorinis ci sono ratti grandi come lupi! Magari alcuni di essi sono arrivati a bordo dell’ultima nave diretta a Trelhaven e si sono intrufolate nelle vostre terre”.
“Questo puoi saperlo solo tu”, rispose l’altro sorridendo e prendendo a sua volta una ciotola di zuppa. “Tuttavia, i ratti se la passano così bene lì da te che dubito abbandonerebbero la propria tana”.
“Beh, se lo venisse a sapere Farmon, andrebbe dritto dal conte a dirgli che, per via dei ratti, può pagare solo metà dell’affitto”.
“Qualche novità su quel vecchio tirchio?”, chiese Mathilde come sempre. Lo Scarafaggio Danzante era il cuore della Marca, un luogo di ritrovo per tutti. Lei veniva resa partecipe di ogni novità e a sua volta le condivideva con tutti gli altri.
“Chiedilo al suo ragazzo”.
“C’è anche Jennek?”
“Sì, sebbene non sappia dove sia, mi spiace”, disse Tulio inclinando la testa. “Devo andare a cercare Jette”, spiegò poi quando già si stava voltando. “Mi ha promesso che avremmo ballato insieme”, terminò per poi sparire.
“Tilde, abbiamo quasi finito la legna da ardere”, disse Orelie da un lato della stanza.
“Miklav doveva andarne a prendere un po’. Tra l’altro, dov’è sparito? Miklav! Miklav!” Suo figlio corse da lei, quasi schiantandosi contro alcuni degli avventori intenti a ballare. Mathilde lo prese per l’orecchio e sibilò: “Ti ho detto di venir subito da me quando ti chiamo!”
“Ehi, Mathilde, portami un’altra birra!”
“E dov’è la mia zuppa?”
“Hai sentito?”, gli chiese, tirando nuovamente l’orecchio del ragazzo ormai esausto. “Mettiti a servire la zuppa. Orelie, potresti spillare un altro fusto di birra? Io andrò a prendere della legna”.
La maggior parte delle persone avrebbe faticato a farsi largo fra la ressa, dato che anche i contadini nei corridoi s’erano uniti ai festeggiamenti. Mathilde però lavorava allo Scarafaggio Danzante sin da quando s’era fidanzata con Ebert e, se c’era una cosa che aveva imparato, era come muoversi senza problemi fra i clienti, anche con sei caraffe di birra in mano se necessario.

Fuori era una notte serena e fredda, com’era tipico della Marca occidentale. Faceva da contraltare a quelle “belle giornate soleggiate”, come le chiamava Ebert, in cui Adanos vegliava ancora sul popolo della Marca, portando equilibrio in tutte le cose. Solo dopo aver messo piede fuori dall’uscio si rese conto quanto la taverna si fosse scaldata con tutta quella gente. Con una serata così, fu tentata di prendersi una breve pausa. Di fronte a lei c’era il buio profondo della foresta, ma fra i rami e le foglie poteva intravedere il cielo buio, costellato di stelle. Un grillo iniziò a frinire. Tuttavia, non aveva tempo per godersi tutto questo, doveva prendersi cura dei propri clienti, quindi si mosse lesta verso il retro dell’edificio per recuperare della legna. Girato l’angolo, le apparve il forte che si ergeva verso il cielo notturno dall’altro lato del fiume. Era buio anch’esso, con solo qualche luce qua e là attorno alle mura. Erano i soldati del marchese Heron di pattuglia con le torce, sicuramente invidiosi dei loro commilitoni che si stavano godendo la libera uscita. Trelis era lì, tranquilla e pacifica, come sempre. Per quanti animali selvatici vagassero per le foreste, per quanti Orchi si avvicinassero ai confini e se anche gli uomini del deserto meridionale avessero di nuovo levato le armi contro di loro, all’ombra di quelle mura la gente della Marca si sarebbe comunque sentita al sicuro. Per intere generazioni, Trelis era stato un baluardo contro le invasioni da Sud e il marchese li aveva sempre protetti.

Tornata dentro con la legna fra le braccia, l’ambiente festoso le risvegliò tutti i sensi, tranne forse quello del gusto. Dopo il buio esterno, veniva ora accolto dai fiori colorati e dalla moltitudine di persone, che danzavano di fronte a lei nei loro abiti migliori. Il rumore, che giungeva solo ovattato all’esterno, delle risate, delle canzoni, degli applausi, del vociare e della musica, era in netto contrasto con il frinire del grillo là fuori. L’aria calda, quasi afosa, non aveva nulla a che spartire con il gelo in cui era avvolto il mondo esterno. Ma, soprattutto, percepiva distintamente l’odore del pane.
“Veloce Miklav, il pane! Datti una mossa, sta per bruciarsi!” Il figlio corse verso il forno. Lei lo fermò solo un attimo per tirargli ancora una volta l’orecchio per la sua sbadataggine, una vera acrobazia considerando tutta la legna che teneva in braccio, poi prese a sgridarlo per la sua lentezza. Fortunatamente, l’odore fresco e piacevole che pervase poco dopo la stanza le fece capire che non era troppo tardi.
“Oh, Jennek!”, salutò allegramente il figlio di Famon, dopo averlo visto mentre posava la legna al solito posto. “Come stai?”
“Sto bene”, rispose il giovane sorseggiando il suo vino e facendo una smorfia che mal si adattava alle sue parole.
“Il vecchio ti sta tartassando, eh?”, gli chiese comprensiva. I segni sulla sua mano erano alquanto evidenti.
“Beh, abbiamo due braccia in meno nei campi al momento, quindi dobbiamo tutti lavorare il doppio”, replicò con faccia mesta, sicuramente citando le parole pronunciate da Famon. “Lavorare il doppio guadagnando la metà, se conosco abbastanza bene tuo padre”, esclamò ridendo, ma la battuta non risollevò il morale di Jennek. “E tua madre come sta?” La faccia del giovane contadino si fece ancora più buia. “Non bene. Non può più lavorare. È costretta a rimanere a letto tutto il giorno”.
Mathilde si passò le mani sul grembiule e abbracciò il ragazzo. “Non perdere la Speranza! Tua madre è una donna forte, vedrai che si risolverà tutto. Il mio Ebert diceva sempre…”

A Jennek non sembravano interessare molto le parole di Ebert, o per meglio dire di Adanos, giacché il suo mite marito non avrebbe mai importunato nessuno dandogli la propria opinione. Inoltre, lasciando perdere l’amore che provava per suo marito, in cuor suo lei sapeva che non era così intelligente da poter dare buoni consigli che fossero farina del proprio sacco. Jennek ignorò le parole con cui lei stava cercando di salutarlo e borbottò: “C’era quel mercante di Geldern, non molto tempo fa. Quello che tiene sempre sott’occhio le proprie pozioni e che le consegna di persona a Trelhaven. Diceva che la situazione non era ancora così tragica. Avrebbe potuto portare una pozione da uno dei suoi alchimisti di Geldern, la prossima volta che passa per di qua. Ma mio padre come al solito ha fatto il taccagno. Ha contrattato finché il prezzo non è sceso della metà, ma anche allora non era abbastanza per lui. Ora non fa altro che ripetere che tanto tutti gli abitanti di Geldern sono dei ciarlatani. Ha mandato una delle sue serve a raccogliere delle erbe medicinali, dicendo che sarebbe stato sufficiente. Ovviamente, le ha decurtato la paga per il tempo che ha perso non lavorando nei campi”.

Mathilde fece per rispondergli, ma non le venne in mente nessun insegnamento di Adanos, dato che anche il signore della mitezza e della misericordia a volte aveva bisogno di tempo. Ancora una volta non riuscì a finire il discorso, perché tutto d’un tratto un uomo del conte irruppe nella taverna, quasi buttando a terra il fabbro Marcelon e facendogli volare la birra dalle mani. Il suo volto era pallido e agitava le mani mentre urlava con tutto il proprio fiato. Nonostante ciò, ci volle un po’ prima che la folla gli desse retta. “Gli Orchi! Gli Orchi! A Geldern! Gli Orchi hanno Geldern. Hanno preso Geldern! Gli Orchi!”, urlò.

All’improvviso la stanza si fece silenziosa. Nessuno danzava. Non risuonava nessuna musica. Perfino Jennek sembrava troppo sorpreso per lamentarsi dell’avarizia di suo padre. Mathilde non si rese conto che la lepre stava bruciando e si dimenticò sia di sgridare Miklav per essersene dimenticato sia di tirargli le orecchie. Gli Orchi.
Ovviamente, aveva sentito che quelle bestie inviate da Beliar avevano invaso le pianure settentrionali. Avevano raso al suolo Silden, almeno così si diceva. Le pianure, però, erano ben distanti e Myrtana era enorme, potente e impenetrabile. Re Rhobar regnava su tutto il mondo conosciuto, aveva persino sconfitto le genti del deserto anni prima. Per quanto riguardava gli abitanti della Marca occidentale, l’unica paura erano i Varantiani. Tutti credevano che gli orchi sarebbero stati rimandati nelle loro terre desolate. A quanto pareva, avevano attraversato a sorpresa le montagne e catturato le pianure indifese, ma il re avrebbe reagito con tutto il proprio esercito, che era stato già in grado di conquistare tutti i reami degli uomini. Negli ultimi tempi, di tanto in tanto soldati e paladini erano passati per Trelis durante i loro viaggi, e ogni volta erano stati accolti festosamente. Ma ora…
Geldern era caduta. Non poteva ancora crederci. Tuttavia, sapeva cosa significasse: presto Trelis sarebbe stata assediata, come già innumerevoli volte lo era stata in passato. Questa volta, però, gli assalitori non sarebbero giunti da Sud, ma da Nord. Sembrava che alla fine Miklav avrebbe imparato cosa significa tremare e aver paura.


Traduzione italiana di -Henry-.


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